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Sintesi di studi/review

Il primo soccorso per la salute mentale come strumento per il miglioramento della salute mentale e del benessere

La prevalenza dei problemi di salute mentale nella popolazione è elevata e ha un effetto deleterio e ad ampio raggio su molti settori della società. Oltre all’impatto sugli individui e sulle famiglie, incidono negativamente anche i problemi di salute mentale sulla produttività nel luogo di lavoro.

Uno dei fattori che possono esacerbare l’impatto dei problemi di salute mentale è la mancanza di “alfabetizzazione sulla salute mentale” nel mondo fra la popolazione generale. Questa è stata definita come “conoscenza e credenze sui disturbi mentali, che aiutano il loro riconoscimento, gestione o prevenzione».

Mental Health First Aid (MHFA) è un breve programma di formazione sviluppato in Australia nel 2000; il suo scopo è migliorare l’alfabetizzazione in materia di salute mentale e insegnare strategie di primo soccorso per la salute mentale. Il corso è stato adattato a vari contesti, ma copre essenzialmente i sintomi di vari disturbi di salute mentale, insieme alle situazioni di crisi di salute mentale associate. I programmi insegnano inoltre ai tirocinanti come fornire aiuto immediato alle persone con problemi di salute mentale e come segnale per i servizi professionali. Si teorizza che una migliore conoscenza incoraggerà i tirocinanti a fornire supporto e a incoraggiare le persone a cercare attivamente aiuto, portando così a miglioramenti nella salute mentale. La revisione si concentra sugli effetti di MHFA sulla salute mentale e il benessere mentale degli individui e delle comunità in cui è stata fornita la formazione MHFA. Viene esaminato anche l’impatto sull’alfabetizzazione in materia di salute mentale

Gli obiettivi principali erano: Esaminare la salute e il benessere mentale, l’utilizzo dei servizi di salute mentale e gli effetti avversi della formazione MHFA sugli individui nelle comunità in cui viene erogata la formazione MHFA. Gli obiettivi secondari includevano l’esame di ulteriori effetti sugli individui (conoscenze e atteggiamenti), effetti sui tirocinanti stessi (conoscenze e atteggiamenti, contatto con persone con problemi di salute mentale, proprio benessere psicologico) ed effetti organizzativi (assenteismo e produttività).

Sono stati inclusi 21 studi nella revisione. Gli studi sono stati condotti in un’ampia varietà di contesti; c’è stata anche una variazione sostanziale nella natura dell’intervento MHFA.differenze.

Non si possono trarre conclusioni sugli effetti della formazione MHFA sui risultati primari a causa della mancanza di prove di buona qualità e spesso non sono sufficientemente ampi per poter rilevare le differenze. Per i risultati secondari sono state trovate alcune prove di potenziale beneficio per i tirocinanti MHFA sulla conoscenza della salute mentale e la riduzione dello stigma.

Si raccomanda che gli studi futuri reclutino un numero sufficiente di partecipanti per essere in grado di dimostrare con certezza se la formazione MHFA è un intervento efficace.

Richardson R, Dale HE, Robertson L, Meader N, Wellby G, McMillan D, Churchill R. Mental Health First Aid as a tool for improving mental health and well-being. Cochrane Database of Systematic Reviews 2023, Issue 8. Art. No.: CD013127. DOI: 10.1002/14651858.CD013127.pub2. Accessed 04 October 2023.

Disturbi mentali e Long-COVID

Il Long Covid, ovvero la condizione patologica in cui i sintomi da COVID-19 continuano a manifestarsi oltre le 4 settimane dalla guarigione dalla malattia, può aggravare disturbi mentali pregressi o causare l’esordio di problemi psichiatrici – secondo gli esperti.
Una task force di esperti provenienti dal mondo della medicina, della neurologia, della neuropsichiatria, della psicologia riabilitativa e delle cure primarie ha recentemente elaborato un documento per orientare la valutazione e la terapia dei problemi di salute mentale nelle persone affette da Long Covid, pubblicato sul Giornale dell’American Academy of Physical Medicine and Rehabilitation (AAPM&R).
Il documento è una Consensus Guidance che sancisce la realtà dei sintomi riferiti dalle persone affette da Long COVID (spesso etichettati come “malati immaginari” da familiari e operatori sanitari), a partire dai dati derivanti dalla popolazione statunitense: almeno il 7% degli adulti (18 milioni di persone) e 1.3% dei bambini ha recentemente sperimentato il Long COVID secondo una recente stima del CDC di Atalanta, e il secondo e il terzo sintomo più comune rilevati, associati al Long COVID, sono ansia e depressione. Alcuni studi evidenziano una risposta infiammatoria a livello cerebrale e corporeo (in specifico, la circolazione di citochine) che potrebbe contribuire al peggioramento o innesco di problemi ansioso-depressivi attraverso meccanismi di tipo chimico; altri studi stanno valutando l’effetto della persistenza del virus all’interno del corpo, dei globuli e della flora intestinale. Inoltre, alcuni sintomi quali la confusione mentale (brain fog), la sensazione persistente di stanchezza o esaurimento fisico/emotivo/cognitivo (fatigue),  i disturbi del sonno, la tachicardia possono imitare i sintomi da Long COVID.
La terapia indicata è analoga a quella per le persone con problemi di tipo depressivo e disturbo post traumatico da stress, e prevede una psicoterapia di tipo supportivo ed eventuali trattamenti farmacologici: la terapia di gruppo può avere un ruolo importante, grazie alla “connessione sociale”, alla validazione della propria esperienza, e all’aumento della consapevolezza delle risorse – proprie ed esterne – esistenti. I professionisti/servizi di cure primarie dovrebbero essere le figure/strutture principalmente coinvolte in prima battuta, con l’invio allo specialista nel caso di pazienti i cui sintomi interferiscano con il loro “funzionamento” e abilità sociali/relazionali.
 

CLINICAL GUIDANCE PM&R 2023
Multi-disciplinary collaborative consensus guidance Statement on the assessment and treatment of mental health symptoms in patients with post-acute sequelae of Sars-Cov-2 infection (PASC) Cheng AL, et al. 2023, American Academy of Physical Medicine and Rehabilitation. 

Long COVID and Mental Illness: New Guidance (medscape.com)

Lo stress correlato al genere femminile come fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi mentali

Le differenze epidemiologiche tra uomini e donne rispetto alla prevalenza dei disturbi psichiatrici comuni e dell’abuso di sostanza sono state ampiamente studiate e documentate. Alcuni ricercatori di alcune università e scuole di medicina statunitensi hanno cercato di spiegare queste differenze, al fine di individuare i fattori di rischio rilevanti, sviluppare interventi efficaci, e orientare le strategie di salute pubblica. Il collegamento tra i fattori biologici (aspetti genetici, ormonali, funzioni cerebrali) e i disturbi mentali è sempre più noto, così come il ruolo dei fattori sociali (aspettative specifiche rispetto al ruolo, socializzazione, strategie di coping apprese). L’impatto deleterio sulla salute mentale dello stress derivante da una vasta serie di esperienze di vita negative è un fattore di rischio ben documentato, in particolare le sue conseguenze psichiatriche per donne e uomini: sindrome post traumatica da stress, depressione maggiore, disturbo d’ansia generalizzato. Mentre è acclarato che le differenze di genere relative al “carico di stress” subìto possono giocare un ruolo chiave nel determinare la prevalenza e l’incidenza di questi disturbi, non è stato ancora preso in considerazione il ruolo degli agenti stressanti nella relazione tra genere e rischio di esiti di salute avversi. Questi ricercatori affermano che lo sviluppo di disturbi mentali è influenzato dall’esposizione a fonti di stress in un ambiente “gendered” (caratterizzato cioè da una differente “valutazione” delle persone in base al genere di appartenenza).

Mazure CM, Husky MM, Pietrzak RH. Stress as a Risk Factor for Mental Disorders in a Gendered Environment. JAMA Psychiatry. 2023;80(11):1087–1088. doi:10.1001/jamapsychiatry.2023.3138

 

L’impatto del cambiamento climatico sulla salute mentale delle popolazioni africane

Durante l’ Africa Climate Week (ACW), l’evento annuale organizzato dalle Nazioni Unite a Nairobi a settembre di quest’anno, una sessione specifica ha riguardato gli effetti del cambiamento climatico sulla salute mentale della popolazione, da cui è emersa una consapevolezza crescente riguardo al tema, a fronte però di scarse ricerche e pochi interventi clinici.

Oltre alle difficoltà finanziarie, influiscono aspetti culturali: il benessere emozionale è scarsamente considerato in Africa, a molte persone ad esempio vengono prescritte terapie mirate per dei problemi fisici, mentre sarebbero più adeguati interventi di tipo clinico – come sostiene il dott. Caradee Yael Wright,leader del Climate Change and Human Health Research Programme, operante all’interno del South African Medical Research Council.

Inoltre, i dati sulla situazione psicologica della popolazione africana sono limitati poichè la sorveglianza non viene svolta in maniera costante nè dappertutto, e così resta sconosciuta la questione dell’impatto del cambiamento climatico sulla salute mentale delle persone, nonostante gli sforzi di molti ricercatori che si agganciano a fonti di finanziamento internazionali.

Queste ricerche evidenziano una connessione tra gli eventi climatici estremi (alluvioni e inondazioni, incendi forestali, siccità cronica, peggioramento della qualità dell’aria) e il cambiamento climatico, e un’associazione con disturbi psicologici quali ansia, depressione, disturbi post traumatico da stress; i risultati sono descritti nel capitolo dedicato all’Africa del recente VI report dell’IPCC – Intergovernmental Panel on Climate Change dell’ONU (https://www.ipcc.ch/report/ar6/wg2/downloads/report/IPCC_AR6_WGII_Chapter09.pdf). Il Report mette in evidenza in particolare la relazione tra i problemi mentali di contadini e agricoltori, la carestia e la perdita del bestiame causate dal cambiamento climatico, soprattutto per il Nord del Kenia e il Sud-Est dell’Etiopia, dove la siccità si è protratta per 5 anni consecutivi. Un altro grosso problema è rappresentato dall’aumento delle inondazioni, con gravi conseguenze in termini di distruzione di case e pozzi, e numerosi morti, che lascia le persone prive di riferimenti strutturali e affettivi.

L’APA – American Psychologica Association utilizza termini quali “eco-ansia” (la paura cronica di disastri ambientali) e “dolore ecologico”: tra le poche ricerche che hanno indagato questo fenomeno nel territorio africano una survey del 2021, pubblicata sul Journal of Health and Pollution, con 46 partecipanti di Algeria, Congo, Gabon, Marocco e Ruanda ne ha rilevato la presenza e l’impatto negativo sulla vita quotidiana.(https://link.springer.com/article/10.1007/s10584-022-03402-2)

 Suran M. As Climate Change Takes a Toll on Mental Health in Africa, Experts Call for More Research and Interventions. JAMA. Published online October 18, 2023. doi:10.1001/jama.2023.19182

 

 

Dalla brace alla padella, ovvero dal tabacco bruciato a quello riscaldato

Circa un milione e duecentomila persone in Italia fanno uso occasionale o regolare di sigarette elettroniche. La nicotina favorisce ipertensione e diabete, e il principio di precauzione sui potenziali danni delle sostanze aromatizzanti presenti nei prodotti senza nicotina dovrebbe farci riflettere. Nel caso del riscaldamento del tabacco si possono produrre formaldeide e acetaldeide, carcinogeni del gruppo 1, secondo lo IARC.

Stigma pubblico nei confronti delle donne vittime di violenza da parte del partner

Lo stigma pubblico nei confronti delle donne vittime di violenza da parte del partner (IPV) mina la loro guarigione. Tuttavia, le ricerche su questo argomento sono recenti. La revisione sistematica mirava ad analizzare il modo in cui questo stigma è stato studiato, i risultati della letteratura relativi o che descrivono la stigmatizzazione pubblica che hanno contribuito a comprendere come funziona e gli interventi e le raccomandazioni esistenti per combattere lo stigma. Le ricerche di articoli sottoposti a peer review pubblicati tra il 2010 e il 2021 sono state condotte in sei database. Gli articoli selezionati erano limitati a studi empirici in inglese, i cui i partecipanti risiedevano in paesi ad alto reddito e fornivano risultati sullo stigma pubblico dell’IPV. Sono stati inclusi un totale di 29 articoli. Lo stigma normalmente non era l’obiettivo principale degli studi, la maggior parte degli articoli non si basava su alcun modello teorico dello stigma per contestualizzare i propri risultati e predominavano le metodologie qualitative. È stata riassunta una serie di temi riguardanti il funzionamento dello stigma norme e percezioni sociali, reazioni pubbliche di stigmatizzazione e le sue conseguenze per le vittime. Fattori come l’etnia hanno aumentato o diminuito lo stigma. La mancata denuncia degli abusi e la mancata richiesta di aiuto sono state le conseguenze menzionate più frequentemente. Sono stati identificati solo un intervento e alcune strategie per ridurre lo stigma. Sono state discusse le implicazioni di questi risultati per la ricerca e la pratica.

Le microplastiche

Le materie plastiche semplificano la nostra vita in vari modi, risultando spesso più leggere o meno costose rispetto ai materiali alternativi. Tuttavia, se non sono smaltite o riciclate correttamente, possono finire nell’ambiente, dove rimangono per secoli e si degradano in pezzi sempre più piccoli. Questi piccoli frammenti (solitamente più piccoli di 5 mm) sono chiamati microplastiche e destano preoccupazione.

È possibile che uno studio scientifico sia falso? Il caso degli zombie trials

In inglese li chiamano «zombie trial». Sono gli studi clinici su farmaci e terapie che contengono dati sbagliati o inventati di sana pianta. Un ricercatore del dipartimento di anestesiologia dell’ospedale di Torquay (UK), il dottor Carlisle, preoccupato che gli studi contenessero dati falsi, ha analizzato i dati riassuntivi degli studi randomizzati controllati sottoposti alla rivista Anesthesia da febbraio 2017 a marzo 2020. Ha classificato i processi con dati falsi come “zombie” se pensava che il processo fosse fatalmente difettoso.

La solitudine può peggiorare la salute mentale

Più di un quinto degli adulti americani riferisce che spesso, o addirittura sempre, si sente solo o isolato dagli altri. La solitudine è una condizione soggettiva, in cui l’individuo si percepisce socialmente isolato anche quando si trova in mezzo ad altre persone. Infatti, sebbene tecnologia e globalizzazione possano aver migliorato la qualità di vita, hanno anche ribaltato i costumi sociali e interrotto il modo tradizionale di relazionarsi: il sovraccarico di informazioni, la connettività 24 ore su 24, le innumerevoli ma superficiali e talvolta dannose relazioni sui social media hanno “spalancato le porte” a questo stato emotivo.

Sebbene sia più probabile riscontrare in popolazioni a rischio di alienazione sociale, isolamento e separazione (come gli anziani privi di rete familiare, pazienti con disturbi psichiatrici o in condizioni di salute che limitano per molto tempo le loro capacità comunicative e/o di mobilità), chiunque può sentirsi solo in qualsiasi momento. Una relazione sociale può essere percepita da un individuo diversamente sulla base di differenti fattori, tra cui le precedenti esperienze, la situazione in cui si trova in quel momento e la generale preferenza verso quel tipo di contatto sociale. È quindi evidente che questa condizione non è limitata agli anziani che vivono soli, ma può manifestarsi in qualsiasi fascia di età, e persino tra quelle persone che hanno numerosi contatti/followers/amici sui social media.

Un recente studio riporta che la maggior parte delle persone che segnalano di vivere la solitudine hanno meno di 50 anni, redditi più bassi e non sono sposate. Dallo studio emerge anche che circa sei persone su dieci affermano l’esistenza di una causa specifica del sentirsi soli: la morte di una persona cara, problemi di salute fisica o mentale, il divorzio o l’allontanamento dalla propria famiglia. Di fatto, alcuni eventi negativi della vita possono esacerbare o mettere le persone a rischio di solitudine: ad esempio, è molto più probabile che chi riferisce di sentirsi solo affermi di aver subìto un cambiamento negativo nella propria situazione finanziaria, un grave infortunio o patologia, o la perdita del lavoro negli ultimi due anni.

La solitudine può contribuire ad una costellazione di disturbi psichici e/o fattori di rischio psicosociali, inclusa la sintomatologia depressiva, alcolismo, pensieri suicidi, impulsività e comportamenti aggressivi, ansia sociale. È anche un fattore di rischio per patologie cardiache e obesità  e sembra contribuire alla progressione della malattia di Alzheimer.

 Un rapporto sulla solitudine in America pubblicato dalla Graduate School of Education dell’Università di Harvard suggerisce che chiedere al paziente se si sente solo dovrebbe sempre essere un elemento da includere nella visita di controllo annuale, alla stregua degli esami del sangue o del controllo pressorio. Sarebbe auspicabile anche sviluppare campagne di educazione pubblica che forniscano alle persone informazioni e strategie che le aiutino ad individuare e gestire pensieri e comportamenti controproducenti, frutto della solitudine. Dovremmo infine lavorare tutti per ripristinare un maggiore senso di responsabilità, sia verso gli altri sia verso il bene comune.

Fattorini L. Solitudine e salute. Salute Internazionale. 11 settembre 2023