INTRODUZIONE
La compassionate care è stata definita come la capacità di comprensione e di risonanza emotiva del professionista sanitario rispetto al malessere/malattia dei pazienti, unitamente alla decisione di agire al fine di alleviare le loro preoccupazioni, lo stress, il dolore e la sofferenza. La compassione implica/richiede empatia, e con molta probabilità è una componente di un sistema adattivo più complesso, evolutosi (non solo tra gli esseri umani) per stimolare e motivare comportamenti di aiuto nei confronti di chi soffre.
I pazienti/utenti si aspettano un atteggiamento “compassionevole” – caratterizzato da gentilezza, accoglienza, attenzione – da parte del medico e dell’operatore sanitario in generale, e la stessa professione medica la richiede per una pratica clinica efficace. È stata infatti individuata come una caratteristica fondamentale per il professionista sanitario, atta a garantire l’erogazione di interventi di cura e assistenza di alta qualità, grazie a studi che hanno evidenziato gli esiti clinici positivi quali ad esempio la riduzione del tasso di complicazioni gravi per i pazienti diabetici (40 – 50%), la diminuzione dell’incidenza di casi di disturbo post traumatico da stress in persone con malattie potenzialmente letali, e risultati di altro tipo quali ad esempio il miglioramento della comunicazione paziente – operatore, la riduzione del burnout del caregiver, la diminuzione dei costi per le cure e delle denunce per errori medici.
Nonostante venga descritta come un pilastro dell’identità professionale degli operatori sanitari, l’impatto di una dimensione compassionevole dell’assistenza e della cura è ancora poco noto e compreso. Tra le criticità: alcuni studi hanno evidenziato che solo il 48% di professionisti sanitari dichiara di adottare la compassionate care, pur avendola studiata all’interno di specifici programmi universitari e corsi di specializzazione medica; il veloce turnover dei pazienti, l’aumento del volume di pazienti, la carenza di personale, e la pandemia di covid19 sono alcuni dei fattori che hanno reso sempre più difficile l’utilizzo della compassionate care nella pratica quotidiana dei sevizi.
Molta della letteratura attuale si è concentrate sull’importanza della compassionate care nella medicina palliativa e del fine-vita, ma il ruolo della compassione andrebbe allargato a tutte le branche della medicina, a tutto il settore sanitario, e alla medicina olistica (omeopatia, medicina ayurvedica, agopuntura, ecc).
IL RUOLO DELLA COMPASSIONE IN AMBITO MEDICO E SANITARIO
Una recente revisione (Watts E et al, 2023) ha cercato di chiarire il ruolo della compassionate care nel setting sanitario, in particolare in ambito medico.
Oggetto di indagine è appunto la pratica dell’assistenza e della cura “con compassione”, e i suoi intrecci con temi quali la formazione medica, la comunicazione medico – paziente, l’attenzione al paziente (patient care), gli esiti clinici, le caratteristiche dei servizi/professionisti sanitari e dei pazienti, la telemedicina e l’intelligenza artificiale, la compassion fatigue, e i costi dell’assistenza.
I risultati hanno evidenziato una correlazione tra gli esiti clinici favorevoli e il grado di empatia e compassione percepite dai pazienti.
Al miglioramento degli esiti di salute si affiancano altre evidenze: la riduzione del costo delle cure, della compassion fatigue e del burnout, e del numero di denunce per negligenza/errore medico.
Gli autori della revisione evidenziano inoltre che la mancanza di una formazione specifica per i professionisti delle discipline mediche (chirurgiche e non chirurgiche) può limitare la possibilità di erogare interventi assistenziali/terapeutici improntati alla compassione e ridurne l’efficacia, e aumentare il rischio di compassion fatigue/burnout.
Uno studio qualitativo (Lane CB, Brauer E, Mascaro JS, 2023) dell’Università di Atlanta (Dipartimento di medicina preventiva e Dipartimento di medicina spirituale) ha cercato di individuare un collegamento tra la compassione e la formazione universitaria dei medici: sono stati svolti dei focus group on line con stakeholder con ruoli formativi importanti, con oggetto le credenze e i fattori ostacolanti/facilitanti rispetto alla compassione, nel contesto dei compiti e delle responsabilità del lavoro quotidiano di formatori e studenti.
I partecipanti ai focus hanno descritto la compassione come qualcosa di più dell’empatia, che spinge ad attivarsi, e che deve essere mantenuta/sostenuta. Gli stakeholder hanno identificato come fattori facilitanti l’auto-gestione delle cure, le esperienze di vita, e i modelli/standard riguardanti il ruolo professionale; ostacoli alla compassione sono invece i vincoli temporali, gli aspetti culturali, il burnout. Sia gli studenti sia i docenti/formatori concordavano: sulla definizione di compassione, e sul fatto che fosse possibile svilupparla e alimentarla durante l’attività lavorativa; sullo scarso – intenzionale – investimento sulla competenza “compassionevole” dei programmi di formazione universitaria medica, e in generale della “cultura sanitaria” (che avrebbe contribuito in maniera diretta a sminuirne l’importanza a livello teorico e pratico).
Prevedere programmi formativi nella facoltà di medicina mirati allo sviluppo e consolidamento della compassione potrebbe senza dubbio rinforzare la cultura professionale dell’assistenza/cura in sanità, garantendo maggiore resilienza e una modalità di accudimento più “calorosa”: questa è la conclusione degli autori, che hanno registrato l’esigenza di studenti e formatori riguardo a un cambiamento del contesto culturale, formativo, lavorativo facilitante l’espressione della compassione.
LA SCIENZA DELLA COMPASSIONE
Il termine “compassionomics” si riferisce alla scienza della compassione: sintetizza e diffonde le evidenze scientifiche inerenti all’impatto – misurabile – della compassione sulla salute e il benessere di utenti e operatori dei servizi e sulla qualità dei servizi stessi; e fornisce indicazioni sulle strategie per sviluppare/rinforzare la competenza “compassionevole” e trasmetterla ai pazienti.
Una recentissima revisione ha preso in esame gli studi sulla compassione in ambito medico-sanitario, in particolare riguardanti i fattori che impediscono agli operatori di manifestarla/esprimerla, gli effetti positivi sulla salute dei pazienti, sul benessere degli operatori, sulla qualità/sicurezza dei servizi e sulla riduzione dei costi correlata (Lains I, Johnson TJ, Johnson MW, 2024). Sono stati analizzati anche i metodi di formazione migliori per “insegnare” la compassione, e le strategie più adeguate per inserire tale competenza/atteggiamento nella prassi medica.
I risultati mostrano che un atteggiamento compassionevole – ossia una risposta emozionale alla sofferenza dell’altra persona, accompagnata dal desiderio autentico di alleviarla – da parte del medico/operatore sanitario migliora gli esiti di salute a livello fisico e psicologico e previene il burnout dell’operatore, grazie anche al miglioramento dell’alleanza terapeutica e dell’organizzazione dei servizi. Gli studi di psico-fisiologia in particolare mostrano che l’empatia e la compassione possono essere sviluppate/rinforzate attraverso una formazione specifica e attraverso l’esperienza e la pratica. Modelli validati di interazioni medico – paziente basate sulla compassione possono facilitare la possibilità di manifestare e trasmettere la compassione nella prassi medica quotidiana.
Stanford Medicine 25 è un gruppo di ricerca e formazione della Stanford University composto da un’équipe di medici e da pazienti con un ruolo di consulenti volontari, che mira a promuovere la “medicina di prossimità”. Sul loro sito è stata pubblicata una interessante intervista agli autori di un testo dal titolo “Compassionomics” (Trzeciak S, Mazzarelli A. 2019), la scienza e la pratica dell’ “aver cura con compassione”: si tratta di una rigorosa revisione di studi scientifici e narrazioni di medici e pazienti che dimostra la relazione tra la compassione medica e gli esiti di salute dei pazienti, nonché l’efficacia di tale prassi nell’ambito sanitario, in particolare in situazioni di ricoveri ospedalieri prolungati e/o lunghe convalescenze.
Tra gli esiti positivi di salute associati ai “modi gentili” del medico, vengono citati: l’aderenza alla terapia, e il miglioramento dei parametri relativi a un intervento chirurgico (facilità nel raggiungimento della sedazione prima di un intervento e un minor bisogno di somministrare farmaci oppiacei dopo l’intervento).
Nel dettaglio, i benefici evidenziati dagli studi, correlati alla manifestazione di compassione da parte dell’operatore sanitario, sono i seguenti:
• per una persona diabetica la probabilità di un controllo ottimale del livello ematico di zucchero aumenta dell’80%, e l’eventualità di andare incontro a complicazioni gravi correlate alla patologia si riduce del 41%
• i pazienti sono meno propensi a un sovra-utilizzo dei servizi, e in media i costi per visite ed esami si riduce del 50% (N.B. dato riferito al contesto statunitense, in cui la sanità è privata)
• i sintomi che hanno portato le persone a rivolgersi al medico scompaiono più velocemente e si riduce il numero di visite ed esami dell’84%.
Le ricerche che hanno utilizzato la risonanza magnetica hanno confermato questi risultati: quando un paziente sperimenta “compassione” da parte del medico/operatore sanitario – percepisce cioè un’azione caratterizzata dal tentativo di alleviare la sofferenza altrui – nel cervello si attiva il cosiddetto “sistema di ricompensa”, ossia quel gruppo di strutture neurali responsabili della motivazione, dell’apprendimento associativo e di emozioni positive (in particolare quelle che coinvolgono il piacere, ad esempio, gioia, euforia ed estasi). Questa associazione, evidente dal punto di vista scientifico, viene però sottostimata dalla comunità medica, secondo gli autori.
Vengono infine identificati e raccomandati 4 comportamenti attraverso cui i medici possono mostrare/esprimere compassione, nel caso specifico di pazienti costretti a letto per una lunga convalescenza o malattia: sedersi accanto (invece di stare in piedi); comunicare faccia a faccia e guardare negli occhi l’altro; mostrarsi attivamente interessati al benessere emotivo e psicologico dell’altro; non interromperlo mentre parla. Si tratta di “esercizi” che unitamente alle competenze mediche standard e di screening possono efficacemente migliorare la salute dei pazienti.
Uno studio osservazionale (Pavlova A et al, 2024) ha analizzato le credenze degli operatori sanitari e il loro potenziale ruolo come fattori predittivi di un atteggiamento improntato alla compassione, all’aver cura e alla motivazione ad aiutare, durante lo svolgimento dell’attività professionale, in particolare con “pazienti difficili”. Le credenze sono state articolate in una struttura con 4 fattori, di cui 3 negativi (la compassione è nociva, è inutile, è estenuante) e uno positivo (la compassione è importante), e sono state effettuate delle analisi fattoriali per confermare la validità predittiva dello strumento usato (Compassion Beliefs in Healthcare Scale) e la coerenza interna dei costrutti.
I risultati evidenziano che la credenza secondo cui la compassione è estenuante/stancante è un fattore predittivo importante rispetto a un minore accudimento/attenzione, scarsa motivazione ad aiutare e poca compassione in generale; invece, la credenza secondo cui la compassione è importante è un fattore predittivo rispetto all’adozione di atteggiamento di accudimento/attenzione e compassione.
LA COMPASSIONE PERCEPITA DAI PAZIENTI/UTENTI DEI SERVIZI
Uno studio empirico dell’Università di Auckland (facoltà di scienze mediche) ha analizzato l’esperienza dei pazienti riguardo alla compassione medica, chiedendo a quasi 800 persone di indicare quali comportamenti degli operatori sanitari li avesse aiutati a sentirsi “seguiti”, “curati”, “accuditi” (Baguley SI, Pavlova A, Consedine NS, 2022).
Le risposte sono state analizzate con dei modelli statistici per individuare i fattori comuni, tenendo presente che comunque la compassione può essere percepita in maniera differente dai pazienti, in base alla differente provenienza culturale ed etnica.
Sono stati così identificati alcuni gruppi significativi di atti medici da parte degli operatori sanitari, descritti dai pazienti come caratterizzati da compassione:
• ascoltare con attenzione (71% delle risposte)
• effettuare incontri ed esami di verifica/monitoraggio, e follow up (11% delle risposte)
• la continuità delle cure con una modalità olistica (8% delle risposte)
• il rispetto delle preferenze/esigenze del paziente (4%)
• il linguaggio del corpo e l’empatia (2%)
• il sostegno fornito attraverso azioni di consulenza e advocacy (1%)
Questi risultati consentono di identificare le azioni concrete che i pazienti sperimentano e percepiscono come “accudenti”, fornendo in tal modo informazioni utili agli operatori sanitari e ai clinici per migliorare le loro competenze nel:
• personalizzare gli interventi/terapie
• rinforzare la relazione medico – paziente
• svolgere la pratica medica con una modalità che i pazienti possano percepire come caratterizzata da compassione.
LA COMPASSION FATIGUE
Una riflessione a parte merita la compassion fatigue, termine coniato da Joinson nel 1923 dopo alcuni studi riguardanti il burnout degli infermieri nelle corsie di pronto soccorso ospedaliero, e traducibile in italiano come “stanchezza da compassione”. Si tratta di un tipo specifico di burnout professionale derivante dall’essere esposti alle sofferenze dei propri pazienti, responsabile di cambiamenti a livello emotivo, comportamentale, cognitivo: il concetto è stato oggetto di vari studi riguardanti il personale sanitario in generale e i medici in particolare.
Le ricerche hanno il merito di aver evidenziato il burnout degli operatori sanitari e i fattori associati quali: una riduzione della capacità di manifestare empatia e compassione, una minore soddisfazione lavorativa, una competenza diagnostica meno accurata, un atteggiamento di apatia durante gli interventi, una carenza di energia, e persino “esaurimento emotivo” (emotional breakdown); a cui si aggiungono interventi clinico-terapeutici di scarsa qualità, elevata insoddisfazione da parte del paziente, aumento di errori medici. A livello istituzionale i costi della compassion fatigue riguardano la perdita di produttività, effetti negativi sul benessere di tutto il personale, e sull’organizzazione dei servizi.
In letteratura sono state espresse anche alcune perplessità riguardo al concetto di compassion fatigue e all’idea di fondo di una riserva limitata di compassione che si prosciugherebbe/esaurirebbe con l’uso o l’uso eccessivo; ne deriva, di conseguenza, che i medici/operatori sanitari diventerebbero meno empatici col passare del tempo e con l’avanzare dell’età, e che la compassione sarebbe una competenza “a esaurimento”, mentre in realtà l’esperienza potrebbe permettere ai medici/professionisti sanitari di sviluppare una migliore capacità di auto-gestione del rischio di burnout e/o di utilizzare strategie per re-integrare le energie profuse durante il lavoro clinico. Inoltre, la compassion fatigue implica che essere compassionevoli sia necessariamente faticoso, mentre le ricerche dimostrano che approcci improntati alla compassione sono preferibili e auspicabili in quanto favoriscono l’aumento delle connessioni sociali, consentono all’operatore di decentrare il focus da se stesso, e contrastano lo stress.
La maggior parte degli studi evidenzia infatti che esprimere compassione in ambito sanitario facilita una maggiore comprensione dell’altro, e fornire compassione non impoverisce i medici, ma li sostiene nell’efficacia degli interventi e nella loro soddisfazione.
Si tratta dunque di un problema ben più complesso, in cui la compassion fatigue rappresenta il “possibile punto finale” di un processo dinamico, che non riguarda solo il professionista ma ha a che fare con l’intersezione delle influenze reciproche tra medico/operatore – paziente – famiglia, istituzione/organizzazione, ambiente, di cui andrebbero individuati i fattori causali della genesi ed evoluzione, per “informare” interventi di prevenzione e contrasto (Spriano P, 2024).
COMPASSIONE E SALUTE MENTALE
La compassione è un ambito di studio e intervento di altre discipline, oltre alla medicina, quali ad esempio la filosofia e la psicologia.
Secondo i modelli evolutivi, la compassione può essere concettualizzata come una motivazione prosociale e come un processo dinamico interpersonale e intrapersonale (l’auto-compassione), che si svolge in un contesto sociale interattivo.
Quando gli individui sono sotto stress, essere accuditi e sostenuti dagli altri non ha solo potenti effetti fisiologici: i benefici della compassione rilevati dalle ricerche riguardano anche la salute mentale, la regolazione delle emozioni, le relazioni interpersonali e sociali. La compassione verso gli altri è stata associata a una riduzione della negatività e a legami sociali più forti, mentre la capacità di essere aperti a ricevere compassione da parte degli altri può tamponare i sintomi depressivi.
La compassione può essere sviluppata e rinforzata attraverso specifici interventi formativi, ad esempio il Compassionate Mind Training (CMT), rivolto a psicologi, psicoterapeuti, medici e psichiatri che vogliano imparare ad utilizzare le tecniche avanzate della Terapia Focalizzata sulla Compassione al fine del loro utilizzo in terapia con i pazienti, in particolare con persone con disagio psichico.
E’ stato dimostrato che la Compassion-Focused Therapy (CFT) – intervento di psicoterapia radicato in un approccio biopsicosociale (Guilbert P, 2020) – riduce i problemi di salute mentale (ad es. depressione, ansia, stress, autocritica, vergogna). Esistono diversi approcci alla compassione e alla sua applicazione in psicoterapia: con la CFT Guilbert ha esplorato il legame tra l’evoluzione della cura e l’emergere della compassione come motivazione e processo umano.
Un ampio studio internazionale (Matos M et al. 2022) ha esplorato l’impatto della minaccia percepita del Covid-19 e della compassione sugli indicatori di salute mentale, in una popolazione adulta globale (poco più di 4000 partecipanti) di 21 Paesi di Europa, Medio Oriente, Nord America, Sud America, Asia e Oceania. In particolare, lo studio si proponeva di esaminare a livello transnazionale se l’autocompassione, la compassione per gli altri e il ricevere compassione dagli altri moderassero gli effetti della minaccia percepita del Covid-19 (la paura e la probabilità di contrarre la SARS-CoV-2) sui sintomi di depressione, ansia e stress e sui sentimenti di sicurezza sociale.
Per quanto riguarda la compassione da parte degli altri e verso gli altri, è stato ipotizzato che questa agisca come fattore protettivo, moderando l’impatto delle paure del Covid-19 su depressione, ansia e stress.
ASPETTI ORGANIZZATIVI
La discrepanza tra i valori personali del professionista e i valori dell’organizzazione/sistema sanitario può influire sulla possibilità di esprimere/manifestare compassione e avere effetti negativi sul benessere (Pavlova A et al, 2023): è questa la conclusione di uno studio osservazionale trasversale (cross-sectional study) della Nuova Zelanda che ha coinvolto più di 1000 operatori sanitari (medici, infermieri, etc), che ha misurato specifici parametri quali l’abilità/competenza della compassione, il burnout, la soddisfazione lavorativa, l’assenteismo e il pre-pensionamento.
I risultati: valori personali percepiti come dissonanti rispetto ai valori dell’organizzazione influivano negativamente sull’abilità nel mostrare compassione, abbassavano il livello di soddisfazione lavorativa, aumentavano i tassi di burnout, di assenteismo, e spingevano a pre-pensionamenti.
Gli autori concludono che ambienti lavorativi portatori di valori dissonanti e contraddittori sono fattori predittivi di interventi sanitari di scarsa qualità, in cui la capacità di esprimere/manifestare compassione risulta limitata; e raccomandano interventi a livello di sistema e organizzativi specificamente mirati ai processi e alle prassi percepite come dissonanti/contraddittorie, al fine di migliorare la performance clinica e promuovere la salute.
CONCLUSIONI
Gli studi hanno dimostrato che la compassione nella pratica medica migliora la qualità della cura e dell’assistenza in sanità, e la soddisfazione del paziente, influendo in ultima analisi sulla salute e il benessere sia degli utenti, sia degli operatori. È essenziale continuare a indagare per comprendere sempre più a fondo l’impatto della compassionate care – e della sua assenza – sia sui pazienti sia sui professionisti sanitari, rinforzando le evidenze, orientando la realizzazione di formazioni specifiche e di pratiche “compassionevoli”, all’interno di un contesto/setting coerente e facilitante.
Gli studi condotti sinora forniscono raccomandazioni comuni:
• certe caratteristiche dell’ambiente di lavoro in cui il professionista sanitario opera potrebbero essere un fattore ostacolante rispetto alla possibilità/capacità di manifestare compassione: la compassione non dipenderebbe semplicemente dalla motivazione professionale individuale o dall’aver appreso abilità trasversali fondamentali, ma potrebbe svilupparsi e “fiorire” all’interno di condizioni cliniche e organizzative maggiormente facilitanti
• per alleviare il carico di responsabilità dell’operatore sanitario, e in particolare del medico, è stato recentemente dato l’avvio all’utilizzo significativo dell’Intelligenza Artificiale; è necessario approfondire lo studio della telemedicina, il cui utilizzo può avere un impatto positivo o negativo sulla cura “con compassione”
• molta della letteratura attuale si è concentrate sull’importanza della compassionate care nella medicina palliativa e del fine-vita, ma il ruolo della compassione andrebbe allargato a tutte le branche della medicina, a tutto il settore sanitario, e alla medicina olistica (omeopatia, medicina ayurvedica, agopuntura, ecc).
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